SS TRINITA’ – a immagine di una comunione d’amore
A IMMAGINE DI UNA COMUNIONE D’AMORE.
La Trinità è un mistero da accogliere, nella sua vitalità intrinseca ed estrinseca. Il Dio rivelato in Gesù di Nazaret è comunione d’amore, che lega il Padre al Figlio nel vincolo dello Spirito. Esso non è un
amore esclusivo, ma è partecipato all’umanità nella creazione, nell’incarnazione e nella santificazione. Il vangelo pone in risalto la sostanziale unità tra il Figlio e lo Spirito, che guida la
comunità dei discepoli a una relazione sempre più piena con Cristo. La Sapienza, descritta in termini personali nella prima lettura, si presenta come l’artigiano artefice del creato; sta alla presenza di
Dio e diviene delizia per gli uomini. La creazione parla di Dio nell’armonia degli elementi, è il riflesso della comunione della Trinità. Nella seconda lettura l’apostolo Paolo ritrae lo statuto dei credenti
che hanno aderito al Vangelo: nella fede nel Figlio, partecipano della grazia divina che consente loro di affrontare le prove e le tribolazioni; nello Spirito Santo sono sostenuti dall’amore di Dio.
L’UNICITÀ DI DIO
Nella liturgia del giorno dellaSS.ma Trinità, possiamo individuare le solite tre tappe di auto-rivelazione della Trinità disposte in quest’ordine. La prima (Dt 4,32-34.39-40), come si conviene alla storia, sottolinea l’assoluta unicità di Dio. Riflettendo sulla straordinaria benevolenza del Signore che è andato a scegliersi come suo popolo «una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi», un popolo che ha avuto il privilegio di udire la sua voce. L’affermazione conclusiva è il cuore della fede di Israele, che si trovava a vivere a contatto con popoli che adoravano una folla di dèi: «Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro». Come si vede, non si tratta solo di “sapere”, ma conta forse di più “meditare bene” tale verità, e diventare così sempre più capaci di rispondere con altrettanta assolutezza “osservando le leggi e i comandi” di un tale Dio: a questa prassi è garantita la felicità delle generazioni, e la permanenza nella terra da lui ricevuta in dono.
FIGLI E NON SCHIAVI
L’azione della Trinità è magnificamente espressa in Rm 8,14-17, un capitolo stupendo, pieno di affermazioni che andrebbero tutte citate. Anzitutto veniamo a sapere che lo Spirito fa di noi dei “figli”, per cui riceviamo, seppur da adottivi, la somiglianza con Gesù. Questo ci sottrae dalla condizione di “schiavi”, ci impedisce di “ricadere nella paura” perché ci situa in un nuovo rapporto con Dio, che possiamo invocare – anzi “gridare”, di gioia suppongo – come «Abbà, Padre!». Così come con il Padre, lo Spirito ci unisce al Figlio, per cui diventiamo «eredi di Dio, coeredi di Cristo», una unione, spessissimo celebrata da Paolo, che ci chiede di essere disposti a «prender parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria».
BATTEZZARE NEL NOME DEL PADRE E DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO
La Trinità, alla fine, appare nella sintesi che Gesù fa della sua vita e della loro missione quando si congeda dai discepoli (Mt 28,16-20). Si è già osservato, per Matteo come per Marco, che la Galilea è il luogo dove tutto è cominciato e dove tutto ricomincia grazie alla risurrezione, che ha conferito a Gesù «ogni potere in cielo e sulla terra». Per fare cosa? Per poter trasmettere, per mano dei discepoli, questo “potere”, che non è quello opprimente e oppressivo che funziona nei regni di questa terra, ma quello di trasmettere la benevolenza di Dio che ci deve incoraggiare a vivere da “figli” nei suoi riguardi. Questa è la missione: «fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato». Il primo e il terzo verbo riguardano l’ammaestramento che si fa con l’annuncio, quello di mezzo è la forma sacramentale che sancisce la nostra nuova condizione di “figli”, a patto che si comprenda il densissimo significato del verbo. Battezzare, a dispetto di quello che noi possiamo pensare abituati a un rito che riduce di molto il senso del gesto, non è spruzzare un po’ d’acqua sulla testa di un bambino, una cerimonia che può risultare simile all’iscrizione ad una anagrafe, che una volta fatta è tutto finito.
“Battezzare” vuole dire “immergere profondamente e interamente”, corpo e anima, in una realtà che è la vita trinitaria, come una spugna assorbe l’acqua in cui è immersa! Questo gesto chiede che si impari sempre meglio a osservare i comandi di Dio, che è un lavoro di tutta la vita, compito dei genitori anzitutto, che dovrebbero essere i primi “catechisti” in quanto educatori. Ogni anno nel tempo di Quaresima siamo richiamati ad “agitare le acque del nostro battesimo”, per impedire che diventino l’acqua morta di uno stagno. Compito gravoso e impegnativo, certo, ma proprio alla fine di questo brano, e del vangelo di Matteo, ci raggiunge una splendida rassicurazione: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». L’Emanuele, Dio con noi, continua a tener fede a quello che significa il suo nome. Ricordiamocene almeno ogni volta che ci facciamo il segno della croce con l’acqua benedetta, a memoria del nostro battesimo.